Nel novanta per cento dei pazienti con un tumore localizzato nella parte inferiore del retto è oggi possibile ricorrere alla chirurgia conservativa, che permette di preservare la normale funzione Intestinale. E’ il confortante messaggio di un pioniere di questa tecnica, il dottor Ermanno Leo, responsabile dell'Unità operativa di Chirurgia colo-rettale dell'Istituto dei Tumori dl Milano. «In Italia», spiega Leo «si contano ogni anno almeno 5000 nuovi cast di questo tumore per i quali l'unica soluzione era rappresentata in passato dall'intervento demolitivo». La tecnica tradizionale prevede infatti che, asportato il tratto di intestino in cui è annidato il tumore; l'estremità del colon venga collegata a un foro praticato nella parete dell'addome in modo da convogliare le feci in un sacchetto. Ora il ricorso alla «colostomia» dovrebbe rappresentare l'eccezione e non più la regola.
Il merito degli avanzamenti terapeutici per i tumori del retto va alla messa a punto di tecniche chirurgiche più sofisticate, ma anche a una migliore conoscenza delle vie di diffusione della malattia. «Nel passato - commenta il chirurgo - si considerava indispensabile avere 5 centimetri di tessuto sano al di sotto del tumore e quando questi non c'erano si riteneva che, per essere curativi, fosse necessario demolire tutto. Oggi invece si sa che nel caso di tumori molto bassi è sufficiente un centimetro di tessuto sano al di sotto del tumore, in quanto la diffusione della malattia avviene in altre direzioni. Ecco allora che in questi casi possiamo e dobbiamo rivolgerci alla terapia conservativa».
Con al suo attivo oltre 400 operazioni, l'Istituto Tumori di Milano è la struttura che in tutto il mondo ha eseguito il maggior numera di interventi di questo tipo.
Ricostruzione
A differenza dell'intervento demolitivo, nell'operazione «conservativa», dopo aver asportato il pezzo di intestino contenente il tumore, il colon viene collegato con la parte restante del retto in cui è contenuto lo sfintere anale. In realtà , le cose non sono così semplici, tanto è vero che, mentre un intervento demolitivo può essere eseguito in un paio d'ore, per quello conservativa sono necessarie fra le cinque e le sei ore. Non si tratta infatti solo di ricollegare il colon con la porzione di retto rimasta è necessario asportare il tumore rispettando tutte le parti la cui conservazione è necessaria per consentire un adeguata recupero funzionale.
E’ inoltre indispensabile costruire un nuova ampolla rettale, vale a dire quella specie di serbatoio per le feci la cui presenza è importante per garantire una buona funzione dell'intestino. L'ampolla viene ricavata ripiegando su se stessa una porzione di colon, in modo da formare un "sac-chetto» che può essere collegato al retto. Nel periodo immediatamente successivo all'intervento sì ricorre a una colostomia provvisoria, per cui il paziente dovrà portare il classico sacchetto esterno per un paio di mesi, trascorsi i quali l'ano artificiale viene chiuso definitivamente. «Si tratta di un accorgimento necessario per consentire la perfetta chiusura di tutti i collegamenti prima della ripresa della funzione - spiega Leo -. Questo periodo può essere comunque sfruttato per effettuare le terapie eventualmente necessarie a completamento dell'atto chirurgico». La differenza che più incide sulla qualità della vita di chi si deve sottoporre a questo tipo di intervento è sicuramente rappresentata dalla possibilità di evitare la colostomia. Ma ci sono anche altri vantaggi, in particolare per quanto riguarda i risultati in termini di rischio di "ricadute".
Meno ricadute
«La nuova chirurgia è più rispettosa della qualità di vita, ma soprattutto è più curativa - commenta il chirurgo. Sarebbe già stato un ottimo risultato se al vantaggio in termini di qualità di vita avessimo fatto corrispondere una parità di recidive rispetto al vecchia intervento. Invece, grazie all'accuratezza della chirurgia e al ricorso ad altre terapie aggiunte, è stato addirittura possibile conseguire una riduzione delle recidive dal 30 all'8 per cento». Come si spiega questo duplice «miracolo»? «Molto dipende dalle migliori conoscenze della vie di diffusione della malattia, oltre che dagli aspetti tecnici, ormai standardizzati da dieci anni. Proprio per il suo atteggiamento di conservazione, il nuovo intervento ha curato l'asportazione di tutti i tessuti che prima venivano lasciati, perché non erano considerati fra le vie principali di diffusione della malattia. Mi riferisco in particolare al tessuto che circonda il retto, il mesoretto (si tratta di tessuto grasso che ospita ai suo interno linfonodi, vasi e nervi, ndr), e che rappresenta la parte anatomica maggiormente incriminata nelle recidive». Nell'intervento tradizionale questo «cuscino di grasso», al cui internò possono essere presenti isolotti del tumore, veniva asportato manualmente, con il rischio di provocare una disseminazione della malattia. Non solo, molto spesso l'asportazione risultava incompleta e gli eventuali focolai di tumore non venivano rimossi.
Migliore efficacia
«Ecco perché l'85 per cento delle recidive locali avveniva entro i primi 24 mesi, mentre chi superava i 5 anni non aveva più niente da temere. Il fatto è che questa è una malattia locale e la possibilità di guarire viene giocata tutta in sala operatoria», commenta il dottor Leo. L'intervento conservativo, che prevede l'asportazione di tutto il mesoretto, finisce quindi per rivelarsi più radicale e più curativo di quello demolitivo.
FRANCO MARCHETTI
